giovedì 30 novembre 2017

L'Aeronautica della Somalia di Silvano Bronchini da Aeronautica del Giugno 1995

L'Aeronautica della Somalia da aeronautica giugno 1995

(1950-60) 

di Silvano Bronchini 

Esattamente 35 anni fa, il 30 giugno 1960, il Comando Aero. nautica della Somalia cessava la sua attività nell'ex colonia che era diventata nazione sovrana dopo dieci anni di amministrazione fiduciaria affidata al nostro Paese. 

E sono quindi trascorsi 45 anni da quando l'Italia ritornò in Somalia per continuare, come potenza amministratrice per conto dell'ONU, quella missione di civiltà che vi aveva svolto per oltre mezzo secolo, dal 1885 al 1941. 

Il compito, non certo semplice, di condurre il popolo somalo all'autogoverno e all'indipendenza fu assolto con senso di responsabilità, profonda coscienza e convinta partecipazione da tutti coloro che vi vennero inviati e, tra essi, dal personale dell'Aeronautica Militare. 

Quella che segue è una breve storia del Comando Aeronautica della Somalia e della sua intensa attività in quel periodo. 



Uno degli L-5 militari poi ceduti all'Aero Club della Somalia


Fin dall'aprile 1948, quando si era avuta la sensazione che l'ONU avrebbe affidato alI'Italia il mandato per l'amministrazione fiduciaria della Somalia, le autorità militari avevano studiato l'istituzione di un corpo di sicurezza di 5.791 uomini nel quale era 
previsto anche un Comando Aeronautica della Somalia, con un organico di 769 persone, che venne formalmente attivato - in base al foglio 203000/0d.2 datato 24 agosto 1949 avente come oggetto "la costituzione in via preventiva del Comando Aeronautica della Somalia - il 15 settembre 1949 sull'aeroporto di Capodichino (Napoli), alle dirette dipendenze dello stato maggiore Aeronautica, con il compito di approntare organicamente e addestrativamente gli enti e i reparti aerei destinati, insieme a unità dell'Esercito e della Marina, a presidiare militarmente il territorio somalo allo scopo di garantirne la sicurezza e di mantenerne l'ordine interno. 


Il 22 febbraio 1950 il nostro governo accettò il mandato per l'amministrazione fiduciaria italiana della Somalia (AFIS) che l'assemblea generale dell'ONU aveva approvato il 21 novembre 1949 e si poté quindi dare attuazione al «piano Ceesarpredisposto per sostituire il personale militare britannico in Somalia.

Per quanto riguarda l'Aeronautica Militare il trasporto del personale e dei mezzi avvenne per via marittima e con i suoi stessi velivoli nel periodo tra il 5 febbraio e il 30 marzo 1950 e interessò 58 ufficiali, 226 sottufficiali e civili, 338 graduati e truppa, 13 aeroplani di vario tipo, 87 automezzi e oltre 1.300 tonnellate di materiale ordinario e speciale.
Un C-45 in sosta ad Alula

L'organizzazione del Comando Aeronautica della Somalia che rivestiva funzioni di Zona Aerea Territoriale (ZAT), fu portata a te'mine in tempi eccezionalmente brevi considerate le numerose difficoltà tra le quali, più notevoli, erano i motivi di urgenza, la scarsa conoscenza delle attrezzature logistiche e operative esistenti sugli aeroporti locali e la poco chiara situazione politico-militare del momento in Somalia e nei paesi vicini. 

Non si dimentichi, inoltre, che l'Aeronautica Militare veniva impegnata = una lunga, difficile e complessa missione a soli 52 mesi dalla fine del secondo conflitto mondiale, nel quale aveva profuo ogni sua energia e dopo il quale era rimasta con pochi aeroplani e con il pe naIe tragicamente ridotto per le pesanz perdite subite. E proprio nella delica.z fase in cui l'Arma azzurra era deci mente impegnata a riorganizzare i propri reparti di volo falcidiati dalla guerra che ad essa venne chiesto di partecipare all'amministrazione fiduciaria della S<>malia, destinandovi uomini, mezzi e materiali da sottrarre necessariamente alle sue già limitate forze. 

Tuttavia, il 31 marzo 1950 il Comando Aeronautica della So" malia, «


E' necessario ricordare che fin dalla loro prima stesura gli organici dell'Aerosomalia subirono profonde modificazioni a causa delle esigenze di bilancio. Basti dire che i 769 nazionali tra ufficiali, sottufficiali, civili e truppa previsti in origine, diventarono 622 alla data del 10 aprile 1950, 369 alla fine dello stesso anno, 136 nell'aprile 1951, 128 nel dicembre 1955,84 alla fine del 1957 e 61 nel dicembre 1959. 

C-47 e C-53 sull'aeroporto di Mogadiscio

La scelta degli aeroplani per la linea di volo avvenne dopo laboriosi studi che tennero conto dei compiti da assolvere, delle distanze da coprire, dello stato degli aeroporti da utilizzare e della particolare climatologia dell'ambiente nel quale operare. Per la squadriglia caccia fu prescelto il P-51 Mustang, per i collegamenti a breve raggio il robusto Stinson L-5 Sentinel e per il compito maggiore, quello del trasporto aereo, il noto bimotore Douglas nelle sue versioni C-47 Skytrain e C-53 Skytrooper. Anche la dotazione di velivoli subì progressive e sostanziali modifiche, tanto da passare dai previsti 18 aerei iniziali ai 13 del febbraio 1950, ai 9 dell'ottobre dello stesso anno e ai 7 del 1953. Nel corso della vita del reparto due C-47 furono sostituiti con altrettanti bimotori Beechcraft C-45 Expediter e due L-5 con due addestratori T-6 Harvard. Al 31 dicembre 1958 la linea di volo risultava composta da un C-53, due C-47 e due C-45. 

All'atto della sua costituzione il Comando Aeronautica della Somalia non aveva una bandiera di guerra che gli venne però concessa e consegnata il 28 marzo 1954 nel corso di una solenne cerimonia sull'aeroporto di Centocelle quando il capo dello stato, in occasione della celebrazione dell'anniversario della costituzione della forza armata, consegnò dieci bandiere di guerra ad altrettanti reparti dell'Aeronautica Militare. 

E come tutti i reparti dell'Aeronautica Militare stessa anche l'Aerosomalia adottò un proprio distintivo che raffigurava un'ala d'aquila sovrastante le stelle della costellazione della Croce del Sud, ricordando così idealmente il vecchio motto "Australi sub cruce" della Aviazione somala del 1930. 


L'attività operativa del Comando Aeronautica della Somalia venne indicata dallo stato maggiore Aeronautica il 10 febbraio 1950 con apposite direttive che stabilivano che l'impiego dell'Aviazione della Somalia (come si continuò per un certo tempo a chiamarla) doveva essere svolto a protezione delle frontiere, a tutela del prestigio delle autorità e in cooperazione con le forze di superficie. I compiti relativi erano quelli del soccorso aereo, della sicurezza interna, di cooperazione con l'Esercito e del trasporto aereo, compiti che, per le già accennate scarse conoscenze che si avevano sulla situazione politica locale del momento, sottolineavano soprattutto le modalità d'intervento in eventuali operazioni militari. 

Dei 54 aeroporti esistenti in Somalia al termine della campagna dell'Africa Orientale e successivamente impiegati dall'Aeronautica nel secondo conflitto mondiale, poterono esserne utilizzati inizialmente - oltre quello di Mogadiscio, unico ad avere la pista in "macadam"soltanto dieci che in seguito, e a prezzo di un duro lavoro, salirono a 18: dapprima Mogadiscio, Iscia Baidoa, Belet Uen, Gardo, Galcaio, Bender Cassim (o Bosaso), Alula, Chisimaio, Bardera e Lugh Ferrandi cui si aggiunsero poi Scusciuban, El Bur, Eil, Obbia, Garoe, Candala, Bender Beila e Dusa Mareb. 

Il 14 marzo 1950, dopo 9 anni, nel cielo della Somalia tornarono a volare aerei con le insegne dell'Aeronautica Militare. Furono due caccia P-51 in volo di collaudo che, sfrecciando su Mogadiscio pilotati dal capitano Carlo Berti e dal tenente Giacomo Rovina, suscitarono il commosso entusiasmo della numerosa comunità italiana, che accorse poi in massa all'aeroporto per festeggiare gli aviatori con una serie di spontanee e calorose manifestazioni di simpatia. E dove, subito dopo, poté assistere al terzo volo della memorabile giornata, quello compiuto sempre con un P-51 dall'aiutante di battaglia Felice Sozzi che eseguì una serie di stupende figure di alta acrobazia che suscitarono l'entusiasmo anche dei solitamente compassati e freddi aviatori britannici presenti in campo. 

L'attività operativa di volo ebbe inizio il 1 aprile successivo con una missione di soccorso ad Alula svolta da un C- 53 pilotato dal maggiore Felice Bastianelli e dal tenente Francesco Fagiolo per trasportare un ammalato grave a Mogadiscio. Seguirono poi numerosi altri voli per missioni di ricerca e soccorso, per trasporto feriti e ammalati dai presìdi dell'interno, per quello di autorità in visite di ispezione, per il trasporto di materiali, posta e personale in avvicendamento (i cosidetti "aeropostali" settimanali del Nord-Est e del Sud-Ovest) e per voli sanitari. 

Particolare impulso venne dato al potenzia mento dei collegamenti radio tra gli aeroporti dell'interno, delle radioassistenze e delle stazioni meteorologiche con l'attivazione di 13 stazioni meteo nell'interno, affidate ad aerologisti somali opportunamente addestrati, e dei due radiofari di Galcaio e Gardo - cui si aggiunsero poi quelli di Iscia Baidoa e di El Bur (quest'ultimo in attività fino al 1954) - affidati a giovani marconisti italiani che vi si avvicendavano a turno. 

Ed è qui doveroso ricordare i loro sacrifici: generalmente senza la vicinanza di altri connazionali specialmente dopo la somalizzazione dei presidi dell'interno avvenuta a partire dal 1955, senza alcuna possibilità di svago, sistemati in tende o in piccoli edifici che nelle ore più calde diventavano inabitabili, riforniti di viveri una volta alla settimana, questi preziosi elementi seppero sempre garantire il delicato servizio. Improvvisandosi meccanici quando i generatori elettrici accusavano noie al funzionamento, sarti e falegnami quanto le tende o i tetti necessitavano di essere riparati, infermieri quando i nativi si ferivano o ammalavano, esposti a pericoli che andavano dal morso del serpente o dello scorpione alla visita notturna della iena nella tenda, talvolta minacciati da malviventi locali, vivendo come eremiti, sempre puntuali agli appuntamenti radio, questi giovani specialisti entusiasti e dotati di un altissimo senso del dovere seppero degnamente rappresentare l'A.M. anche nelle più sperdute località assistendo complessivamente - e bastino questi dati a sottolineare il loro impegno - 7.057 velivoli e trasmettendo o ricevendo un totale di ben 410.215 messaggi relativi all'assistenza al volo. 

A Ila fine del marzo 1951, in considerazione della calma che regnava nel territorio, dell'assenza di disordini e dell'improbabilità di incidenti alle frontiere, i P-51 cessarono i voli per essere smontati e rimpatriati, la squadriglia caccia fu soppressa e il gruppo misto trdsforrnato nella sola squadriglia trasporti e collegamenti. Da quel momento, quindi, l'Aero somalia operò essenzialmente nel settore del trasporto aereo anche a favore delle popolazioni autoctone dell'interno, prive di adeguate vie di comunicazione e dei relativi sistemi di trasporto. 

A metà del 1951, con l'accennata progressiva diminuzione del personale e dei velivoli, l'attività di volo subì un notevole ribasso, accentuato anche dalla sempre maggiore scarsità di ricambi, peraltro non approvvigionabili per quella limitata disponibilità di fondi che, se pur in misura minore, penalizzò sempre le attività del reparto fino al termine del mandato fiduciario. 


Solo l'appassionata opera direttiva dei comandanti e quella esecutiva degli specialisti (quotidianamente impegnati a ricuperare pezzi di ricambio considerati ormai fuori uso e rimessi in efficienza con pazienza, ingegno tecnico e qualche volta geniale inventiva) permise all'Aerosomalia di superare quel difficile momento e continuare nella sua attività volta principalmente ad assicurare i corrieri aerei militari - i citati aeropostali - e i voli di soccorso. 

E' significativo ricordare che dal l o aprile 1950 al 30 giugno 1960 furono effettuati 8.443 voli per un totale di 10.746 ore. Nei 4.983 voli, pari a 7.095 ore, compiuti per gli aeropostali, vennero trasportati 28.522 passeggeri, 306.316 quintali di posta e 1.162.521 tonnellate di merci e materiali. 

Considerato il tipo e l'esiguo numero di velivoli mediamente in dotazione e l'organico del personale navigante in forza, appare evidente- specie se rapportata all'epoca in cui ebbe luogo - l'imponenza dell'attività di volo svolta in quel decennio e che, suddivisa per tutti i giorni di tale periodo, corrisponde a oltre 2 ore e 45' quotidiane svolte, si badi bene, in un ambiente caratterizzato da alte temperature, forti venti monsonici, piogge equatoriali, tempeste di sabbia, elevatissima umidità e comprendenti continui decolli e atterraggi su terreni appena battuti e quasi sempre al massimo del carico consentito (e qualche volta anche di più!). 

L'alta media delle ore di volo giornalmente effettuate e il basso numero di incidenti occorsi (solo tre velivoli perduti dei quali due per cause non legate ad avarie) attestano l'ottima efficienza media degli aeroplani dovuta senza dubbio alle capacità, alla determinazione e ai sacrifici degli addetti alla manutenzione e all'impegno del personale navigante. 

Gli incidenti furono i seguenti: il P- 51 precipitato nei pressi dell'aeroporto di Mogadiscio durante l'esecuzione di una manovra acrobatica il 20 marzo 1950 con la morte del pilota, sergente maggiore Bruno Munarin; il C-53 pilotato dal capitano Elio De Franco e dal sergente maggiore Renato Molinari, con a bordo altri quattro uomini di equipaggio e 14 passeggeri, costretto ad un atterraggio di emergenza nella savana nei pressi di Nairobi per una grave avaria al motore sinistro che, pur portando in pratica alla distruzione del velivolo non provocò alcun danno alle persone; il T-6H pilotato dal comandante del l'Aerosomalia, tenente colonnello Dino Mazzei, che andò distrutto impattando il terreno dell'aeroporto di Alula il 15 maggio 1956 durante un passaggio a bassissima quota e nel quale il pilota perse la vita ed il 10 aviere motorista Antonio Petriccione rimase gravemente ferito. 

L'aeropostale settimanale in sosta a Gardo 
Il 28 giugno 1960, con una solenne cerimonia, la bandiera dell'Aerosomalia - ultima bandiera militare italiana a lasciare la terra d'Africa - veniva rimpatriata dall'autore di queste note, allora "alfiere" del Reparto, per essere deposta e custodita nel Museo Sacrario del Vittoriano a Roma. 

L'ultima missione di volo fu svolta il 30 giugno 1960 con un C-47 dai capitani Renato Reggiani e Aristide Degli Esposti per il trasporto a Nairobi dell'amministratore italiano, nello stesso giorno in cui, con un anticipo di sei mesi sulla data prevista per l'indipendenza della Somalia, cessava il mandato affidato dall'ONU all'Italia. 

Il Comando Aeronautica della Somalia, avendo terminati i compiti per i quali era stato costituito, veniva quindi soppresso con circolare n. 2408/252 datata 12 luglio 1960 dello stato maggiore dell'Aeronautica e tutto il materiale dell'Aerosomalia, compresi i velivoli (per i quali peraltro lo SMA aveva proposto il rimpatrio perché conveniente o, quanto meno, la cessione a pagamento) fu ceduto a titolo gratuito dal governo italiano alla neonata Repubblica Somala per la sua aviazione militare. 

A Mogadiscio rimanevano 20 persone, tra civili e militari, che costituirono il nucleo A.M. per l'assistenza tecnica alla Somalia e, in particolare, alla nascente forza aerea di quella nazione per la quale, fin dal 1954, il personale dell' Aerosomalia aveva dedicato impegno ed energie per dare le basi professionali a specialisti e naviganti che seguivano poi corsi regolari presso gli istituti e le scuole dell'Aeronautica Militare in Italia. 

A conclusione di questa sintesi relativa al Comando Aeronautica della Somalia durante l'amministrazione fiduciaria italiana dell'ex colonia e del quale, purtroppo, si trovano solo rari e generici accenni nella storiografia di quel periodo, è debito morale ricordare - anche per onorarne i Caduti - che al Reparto venne riconosciuto dalle più alte autorità nazionali, somale e dell'ONU di aver brillantemente svolto i propri compiti, contribuendo in maniera fattiva e determinante al compimento dell'alto incarico di civilizzazione affidato all'Italia. 

venerdì 24 novembre 2017

I caccia bifusoliera della Regia Aeronautica di Daniele Lembo

tratto da Aeronautica Gennaio 1998

 

I caccia bifusoliera della Regia Aeronautica

di Daniele Lembo

Quando si affronta il tema dei velivoli in uso alla Regia Aeronautica o anche solamente progettati per la stessa, ci si accorge ben presto che l'interlocutore, anche il più sprovveduto, ben conosce quali furono le macchine più famose prodotte dall'industria nazionale durante il secondo conflitto mondiale.

Tutti sanno dei caccia della Macchi, dei bombardieri della Savoia Marchetti o degli idrovolanti Cant.Z prodotti dai Cantieri Riuniti dell'Adriatico.

C'è però una categoria di aerei, quella dei caccia bi fusoliera, i quali furono indubbiamente i velivoli nei quali l'industria nazionale dell'epoca profuse maggior impegno che sono praticamente sconosciuti ai più.

I caccia a doppia fusoliera furono pensati e progettati per rispondere all' esigenza di poter disporre finalmente di un efficace velivolo, potentemente armato, idoneo ad effettuare compiti di caccia pesante e di attacco a lungo raggio e capace di stare alla pari con aerei del tipo Messerschmitt Bf.11O tedesco e De Havilland Mosquito inglese.

Nell'impresa si cimentarono, con alterne fortune, le maggiori industrie aeronautiche italiane all'epoca attive. La Caproni Aeronautica Bergamasca, dopo la rinuncia da parte della Reggiane a costruire il Re.2005 bifusoliera, iniziò la realizzazione di uno dei progetti del noto ingegnere Cesare Pallavicino, il potente Caproni 380 "Corsaro", costruzione che realizzata solo in parte alla data dell'8 settembre 1943 fu definitivamente messa da parte in seguito ai farti armistiziali.

Qualche fonte fa cenno anche al progetto di un Macchi 205 (Veltro) a doppia fusoliera. Chi scrive può dire di non aver mai letto nulla che avesse i requisiti della congruità sull'argomento e che i contatti avuti, in via informale, con la Macchi al fine di saperne di più sull'argomento hanno avuto un esito negativo.

L'unica azienda nazionale, operante nel settore, che riuscì a progettare e far volare un velivolo del tipo in argomento fu la SIAl Marchetti.

La brillante mente dell'ing. Alessandro Marchetti, forse la mente più fervida che ha visto la luce nella bella cittadina di Cori in provincia di Latina, diede vita prima al prototipo del SIAI Marchetti SM. 91, costruito in due esemplari e poi a quello del successivo ed unico SM.92.

I velivoli progettati nel 1942 furono entrambi collaudati da Aldo Moggi.

L'S.M.91



Il nostro SM.91 fu un monoplano bimotore, con eliche tripale metalliche a passo variabile in volo, a struttura interamente metallica ad eccezione del rivestimento dei piani mobili i quali erano in tela, avente carrello retrattile verso l'indietro, con esclusione del ruotino di coda dotato di carenature.

L'equipaggio, costituito da un pilota e da un marconista-navigatore-arrniere, trovava I posto in tandem in una cabina climatizzata con abitacolo corazzato.

Inoltre le dotazioni dr bordo comprendevano un impianto RT tipo S.90 o B60. un'attrezzatura fotografica, un impianto per l'ossigeno ed uno antincendio ed infine un apprestamento antighiaccio sul bordo alare funzionante a mezzo dei gas di scarico dei motori.

La vera caratteristica del velivolo era costituita dai travi di coda che supportavano i due motori e la carlinga ubicata in posizione centrale tra i travi stessi.

La progettazione della macchina fu lunga e difficile. Dai disegni progettuali della SIAI Marchetti, che chi scrive ha potuto visionare, si deduce che la formula bimotore non fu l'unica presa in considerazione.

La fervida mente del progettista elaborò anche una eventuale formula trimotore, ove il terzo gruppo motore-elica trovava posto alle spalle dell'equipaggio.

Lo scrivente ha avuto modo di visionare anche uno schizzo di massima del progetto, ove il velivolo, proposto in formula monomotore, presenta il solo motore posteriore.

In questo schizzo, il pilota è praticamente sdraiato in posizione prona, cosa che fu realizzata nel successivo SM.93, ed è allogato in una cabina con la parte anteriore completamente vetrata che ricorda in qualche modo la cabina di pilotaggio dell'Re. Il 1 tedesco.

La cosa più sorprendente di questo schizzo è che le due semiali presentano nella parte esterna ai due travi di fusoliera e posizionate nella parte inferiore due "pinne di squalo" sulla cui funzione non si è in grado di dare alcun contributo e di cui si riferisce per semplice curiosità.

Il velivolo, destinato alla scorta lontana, al siluramento ed all'assalto al suolo, era mosso da due motori Daimler Benz DE 605, costruiti su licenza dalla FIAT, raffreddati a liquido mediante due radiatori, e riforniti da sei serbatoi autostagnanti siti nelle semiali esterne, capaci di 1.600 litri di carburante, dotazione aumentabile fino a 1.800 litri utilizzando serbatoi sganciabili. Una capacità di carico del carburante che dava al caccia una autonomia di 1.600 km.

La velocità massima raggiungibile era di 585 km/h a 6.700 m, mentre la tangenza massima era di 10.800 m.

L'armamento era costituito da cinque cannoni da 20 mm di cui tre posizionati sul muso della carlinga centrale (la previsione era però di quattro cannoni in questo sito) e altri due alla radice delle ali sui fianchi della carlinga.

Inoltre fu prevista la possibilità di montare su un arcone SIAI un ulteriore cannone da 20 mm nella parte posteriore della carlinga che doveva essere brandeggiato dal marconista-armiere.

L'armamento di caduta, per il quale furono previsti attacchi esterni era quantificabile in 1.640 kg di bombe oppure un siluro.

I! primo prototipo, con MM 530, volò per la prima volta, ai comandi del collaudatore Moggi 1'11 marzo 1943 a Vergiate. Il precipitare degli eventi non consentì che la nuova macchina fosse trasferita al Centro Sperimentale di Guidonia. Infatti il 12 ottobre dello stesso anno fu requisito e trasferito dai tedeschi in volo in Germania dopo aver volato con insegne littorie per poco pi' di 27 ore.
Il secondo prototipo, salvato dalle bramosie germaniche, e portato in volo il 10 luglio 1944 dal collaudatore Moggi e dal motorista Ceratti,fu distrutto da un bombardamento americano sull'aeroporto di Vergiate. In tale occasione trovo' la sua ingloriosa fine anche il SIAI Marchetti S.M.92 che costituiva la formula piu' avanzata del SM91.

L'ottimo prototipo poteva da un occhio poco esperto, essere facilmente confuso con lo statunitense P-38 Lightning, aereo dal quale differiva pero' per innumerevoli ragioni. Il nostro , oltre ad essere una caccia pesante che pesava tra l'altro quasi una tonnellata in piu' del caccia leggero americano, era una macchina, nelle sue proporzioni, molto piu' grossa di quella americana ed inoltre aveva una potenza di fuoco talmente elevata da non aver nulla a che vedere con l'unico cannone e le quattro mitragliatrici del P-38 , il quale di contro raggiungeva una velocità massima di 643 km/h

la somiglianza comunque era cosi' rilevante che nel Marzo 1944 un Macchi 205 dell'ANR, avendolo scambiato per un P-38 americano, attaccò durante un volo di collaudo il già citato prototipo dell'Sm.92, il quale nelle linee generali somigliava al suo predecessore SM.91.
Solo la perizia del collaudatore, il quale riuscì ad atterrare a Lonate Pozzolo, evitò la distruzione del prototipo. I danni furono comunque elevati e le riparazioni si protrassero per svariati mesi.

L'SM.92


Il "92" FU LA BRILLANTE EVOLUZIONE DELL' SM.91 . IL PROTOTIPO, COSTRUITO IN UN UNICO ESEMPLARE (MM 531), volò con insegne tedesche per la prima volta il 12 novembre 1943 e fino alla data della sua distruzione al suolo effettuò poco piu' di 21 ore di collaudo in volo.
Di quali furono le vicissitudini operative e terminali dellSM.92 avviamo già' detto.
La grossa novità del velivolo fu l'eliminazione della carlinga centrale e il posizionamento del posto di pilotaggio della macchina in un abitacolo ricavato nella fusoliera di sinistra.

Questa particolarissima novità strutturale diminuì la sezione frontale dell'aereo , nonché le dimensioni dell'apertura alare e del peso dell'aereo causando nel contempo il miglioramento delle prestazioni generali del velivolo. Il quale aumentò notevolmente la velocità ascensionale, portò la velocità massima a 615 km/h, la tangenza a 12.000 m e la sua autonomia a 2.000 km.

Questi brillanti risultati migliorativi furono ottenuti facendo restare invariato l'impianti propulsivo il quale veniva rifornito da serbatoi di benzina capaci di 1.860 litri di carburante.
Il nuovo posizionamento dell'abitacolo dava inoltre , all'osservatore che guardava dal lato destro, l'impressione che lo stesso fosse privo di pilota e telecomandato, ingenerando non poca confusione in un avversario.

Il nuovo eroe era armato con tre cannoni da 20 mm e cinque mitragliatrici da 12,7 mm.
Due cannoni erano alloggiati nel settore alare centrale, il terzo sparava attraverso il mozzo dell'elica destra.
Le mitragliatrici si trovavano in numero di due sotto ciascun motore. la quinta era invece in un bulbo, il quale ospitava anche il ruotini posteriore retrattile, situato sotto il pian di coda.

Quest'ultima arma, telecomandata, avrebbe ridotto lo svantaggio in combattimento manovrati con avversari dotati di maggiori doti acrobatiche.
Per questo aereo fu previsto dalla casa costruttrice un lanciabombe ventrale per bombe fino a 1000 kg e un lanciabombe unificato alare per bombe fino a 160 kg.

CONCLUSIONI

I due velivoli, furono tra le piu' belle macchine prodotte dall'industria aeronautica italiana. Se avessero effettuato il primo volo tre anni prima e fossero stati distribuiti ai reparti in numero sufficiente la Regia Aeronautica avrebbe avuto in dotazione il caccia pesante che non ebbe mai ed anche un probabile sostituto per il SM 79 silurante, cosa che avrebbe sicuramente sortito effetti favorevoli.
Peccato che, notoriamente, la storia non si fa con i se ed i ma.

I due aerei restano comunque quale significativo esempio della capacità dell'industria nazionale. la quale quando voleva e quando qualcuno gli forniva i motori, era capace di ottime realizzazioni.

L'interesse dei tedeschi per i due prototipi fu sicuramente dettato piu' dalla volontà di arraffare tutto l'afferrabile sul suolo italiano dopo l'8 settembre che da un effettivo interesse per le novità concettuali dei velivoli. Infatti i velivoli all'epoca ben poco avevano di nuovo per la Luftwaffe la quale, oramai orientata verso la propulsione a getto , nessun interesse avrebbe nutrito verso due velivoli con motori in linea.

domenica 19 novembre 2017

Saluto al Trimotore SM. 79, un caro e vecchio amico.

da Aeronautica Giugno 1996

Saluto al Trimotore SM. 79, un caro e vecchio amico. 


di Giuseppe Scarpulla 



A te, caro ed indimenticabile "S 79", a distanza di oltre 50 anni dal nostro ultimo incontro avvenuto alla fine del conflitto 1940-43, rivolgo un pensiero riconoscente ed affettuoso per essermi stato amico, per più anni, in pace ed in guerra, di giorno e di notte, col sole o con la pioggia, col sereno o con la caligine più nera, ma soprattutto in quei tre anni così particolari. 

A me non è mai piaciuto che il nemico ti abbia gratificato del nomignolo di "Gobbo Maledetto". Ma tale epiteto significava bene quale fosse la tua personalità e perchè ti fosse stato affibbiato. lo, invece, preferivo che fossi chiamato col tuo nome di battesimo e cioè "Sparviero" giacchè a tale rapace somigliavi per velocità e grinta. 

Le tue qualità di maneggevolezza, di ripresa e di versatilità fecero sì che la Regia Aeronautica ti impiegasse, per anni, in tutti i fronti, come bombardiere diurno e notturno, siluratore, ricognitore, mitragliatore su unità terrestri, scorta a convogli navali, ecc. Altri Paesi ti hanno utilizzato sia come velivolo militare sia come rapido mezzo di trasporto aereo civile. 

In otto anni di vita, sei stato prodotto in circa 1.300 esemplari. I primi furono impiegati con successo anche in competizioni internazionali di velocità; gli ultimi, ahimè, per il traino di bersagli in esercitazioni di tiri antiaerei. 

Si è detto e scritto che tu avessi alcuni difetti quali la poca stabilità in quota, l'eccessiva sensibilità dei comandi, l'instabilità nelle perturbazioni atmosferiche ed altro. Ciò è in parte vero: ma quanti pregi avevi a fronte di così pochi difetti che non erano più notati da chi ti prendeva in confidenza! 

Il SM79 in volo

Eri solido, incassatore imperturbabile di offese provenienti dall' aria o da terra, agile, potente ed in grado di volare anche con due dei tre motri di cui eri dotato. Se tu, come auspicavamo, fossi stato fornito di motori più potenti (non da 680 ma da 1.000 cavalli) di quali più esaltanti prestazioni saresti stato capace! 

In guerra fosti impiegato da 15 Stormi e da vari Gruppi autonomi. Ora, di tanta gloria, rimane il ricordo nei libri scritti per celebrare la prestigiosa vita da te vissuta; rimane il ricordo di chi, nella buona e nella cattiva sorte, ti ebbe compagno fedele. Rimane, soprattutto, l'affetto tenace ed ancora sentito di coloro che con te ebbero la ventura di vivere ore di irripetibile esaltazione in volo e di trepidante ansia in azioni di guerra 

Chi, infatti, potrà dimenticare la tua voce? Ringhiosa all'occorrenza, ma pacata, serena, suadente, rassicurante nei lunghi voli. In partenza, al decollo, le tue tre eliche con passo variabile, sospinte dalla forza dei tuoi motori, avvertivano col loro inconfondibile "gnau ... gnau .. " che ti assestavi nelle condizioni ottimali di rendimento. In volo, il costante "uuuhau ... uuuhau" dei propulsori ci diceva che tutto procedeva bene e che soltanto dal nemico avrebbe potuto giungere offesa o pericolo; da te giammai, perché eri amico fidato e fedele. 

Filavi a 400 chilometri l'ora e salivi sino a 5.000 metri con disinvoltura; avevi sei ore di autonomia e potevi percorrere, senza scalo, più di 2.000 km. Tali caratteristiche erano allora davvero notevoli. In combattimento o sulle artiglierie contraeree potevi essere pilotato quasi come un velivolo da caccia giacché consentivi manovre brusche oppure voli in formazione assai serrata per la più efficace difesa con le armi di bordo. 

In atterraggio eri docile: prendevi il vento sensibile come un uccello e potevi essere indotto in una scivolata d'ala a destra a sinistra, se eri "lungo", quasi come foglia planante nel vento. Le tue alette Handiey - Page entravano o uscivano automaticamente, a seconda dell'occorrenza, ed il pilota ti sentiva come parte di se stesso s'al rotolare delle tue ruote sulla pista. 

Anche al decollo, da pista erbosa o in cemento, eri docile alla mano esperta agendo a dovere sui comandi e sulle mane.te, era facile farti partire con qualsiasi tipo di vento teso o a raffiche. I tuoi motori Alfa 126 e 128 non fecero mai capricci, nonostante le approssimative revisioni che i motoristi riuscivano a fare miracolosamente sulle piazzole di parcheggio, senza adeguata attrezzatura, ma con le loro ineguagliabili professionalità e passione. 

E chi, se non tu, sarebbe stato in grado di riportare alla base l'equipaggio - e cioè cinque giovani vite - privo di quasi meta dell'ala destra addentata ed asportata dalla furia del mare in tempesta durante una drammatica manovra di scampo da pericolo mortale? Mutilato, ma tetragono alla malasorte, non ti arrendesti al mare, ma lasciandogli una parte di te continuasti, caparbio e tenace, il lungo volo di rientro. Atterrasti così: monco e malridotto, l'equipaggio illeso, lo Stormo incredulo ed entusiasta. Fosti riparato, curato e guarito col amore e tornasti a cantare la gloria della '"ita. Nella vicenda non ti pilotava un asso dell'aeronautica ma un tenentino di complemento: uno di noi, uno dei tuoi amici. 

Così ti ricordiamo io e tanti altri che come me, ebbero la ventura di affidarti :" loro giovanissime esistenze nel compimento del loro dovere. A te moltissimi debbono, la vita. 

Di te, ora, sopravvivono due soli esemplari custoditi in musei, ma di te rimane in noi l'affettuoso ricordo riservato all' arnie: più caro. 

Se si potesse creare un paradiso degli aviatori, vorrei che tu vi fossi collocato il diletto e la gioia dei chiamati alla glori dell'eterna felicità. 

sabato 11 novembre 2017

Mattino di Primavera - Il collaudo del Sagittario


da Aeronautica Giugno 1996

Mattino di Primavera - Il collaudo del Sagittario




di Costantino Petrosellini

Questa mattina, 19 maggio 1996, inconsciamente mi sono svegliato alle prime luci dell'alba, sono andato alla finestra ed ho guardato il cielo. E' limpido e sereno: e lo smog ed i rumori della città non hanno ancora inquinato l'ambiente immerso, a quest'ora, prevalentemente nel sonno.

Ho cercato sulla sedia accanto al letto la mia combinazione di volo, come quarant'anni fa, la stessa ora, lo stesso giorno, il 19 maggio 1956. L'ho ritrovata, nella mia memoria: e l'ho indossata di corsa, mi sono sciacquato il viso, ho preso la macchina e mi sono precipitato a Pratica di Mare.

Con gli occhi chiusi, seduto sulla sponda del letto, ho rivissuto attimo per attimo quel giorno così importante della mia vita di pilota. Giorno del quale ho ripercorso oggi ogni istante, ogni emozione, ogni palpito.

E' necessario dire cosa significa nella strada aspra ed entusiasmante di un aviatore il primo volo di collaudo di un prototipo?

Mentre ero al Centre d'Essais en Vol di Bretigny (Francia), nel 1954, a seguire il corso per piloti collaudatori, mi era stato comunicato che ero stato prescelto per portare in volo il primo caccia a reazione costruito in Italia nel dopoguerra, il "Sagittario" che doveva essere prodotto nelle officine Aerfer di Pomigliano d'Arco.

Finito il corso in Francia, lasciai il Reparto Sperimentale di Volo e mi spostai a Napoli. Tutto il 1955 e l'inizio del 1956 li passai nel capannone dell'Aerfer dove il Sagittario stava prendendo forma. Ogni più piccolo particolare, ogni centina, ogni trasmissione, ogni impianto mi passavano sotto gli occhi e le mani: partecipavo alla costruzione insieme ai bravissimi tecnici dando loro l'aiuto che potevo, anche in funzione di tutto ciò che avevo imparato nell'impegnativo corso a Bretigny.

La cabina di pilotaggio, poi, mi occupava la mente e il cuore: ogni comando, ogni strumento, ogni particolare doveva rispondere ad un preciso criterio di ergonomia, dovuto al fatto che il complesso non doveva soltanto servire al pilotaggio ed all'impiego del velivolo, ma anche all'esecuzione delle prove di volo, severe, già programmate.

L'aereo, infatti, doveva rispondere ai requisiti di un caccia Intercettore dalle prestazioni transoniche. Sulla carta, erano previsti un "mach critico" ben superiore ad 1, una tangenza di oltre 45.000 piedi (13.500 metri), con prestazioni di decollo ed atterraggio particolarmente brillanti.

Per ottenere tutto ciò, il progettista ing. Sergio Stefanutti (uno dei grandi geni dell'aerodinamica che l'Italia poteva vantare) aveva studiato un'ala con 45 gradi di freccia (molto, all'epoca: l'F-86 aveva una freccia di 37 gradi), con profilo laminare a spessore variabile lungo 12 m (per migliorare le caratteristiche di stallo e di manovrabilità), nonché una particolare distribuzione delle masse (motore Rolls-Royce in posizione anteriore, con getto al di sotto della fusoliera) serbatoio principale del carburante nella parte posteriore della fusoliera e armamento (2 cannoni da 30 mm.) e munizionamento in posizione esattamente baricentrica.

In totale, 3.200 kg. di peso totale (in configurazione "intercettore") con una spinta di oltre 1.800 kg. del motore.

A febbraio 1956 cominciarono i rullaggi sulla pista di Pomigliano d'Arco. Nelle ore in cui non c'era l'attività della Scuola di volo dell'Accademia Aeronautica, per giorni e giorni, avanti e indietro sulla pista a provare freni, movimenti dei comandi (servocomandi idraulici), risposta del motore, radio, osservando temperature, regimi, consumi.

Poi, alla fine di aprile, dopo tutto questo lavoro (necessario anche per arrivare ad una perfetta simbiosi velivolo-pilota), il Sagittario fu installato su un particolare pianale di un rimorchio di un enorme camion per essere spostato a Pratica di Mare per i voli di collaudo in quanto la possibilità di effettuarli a Capodichino era stata scartata per la vicinanza della città con evidenti rischi.

Noi tutti, l'ing. Stefanutti, il direttore delle prove di volo ing. Meneghini, il progettista degli impianti elettrici ed elettronici ing. Bartoli, il capotecnico Giovanardi, i tecnici Magara, il ten. GAri Pirani (capo Ufficio sorveglianza tecnica) ed io aspettavamo con ansia l'arrivo: al tramonto il Sagittario era a Pratica di Mare.

Il mattino successivo, durante lo scarico, la gru "scarrucolò" e il velivolo urtò il pavimento dell'hangar con il carrello ancora chiuso. Per fortuna i danni furono lievi ed il giorno successivo potemmo ricominciare i rullaggi. Questa volta la lunghezza della pista di Pratica permetteva il raggiungimento di velocità molto più elevate di quella che era stato possibile toccare a Pomigliano.

Queste prove venivano effettuate nelle ore in cui era ferma l'attività del 4° Stormo che nello stesso periodo si era spostato da Capodichino a Patica, con i piloti che avevano iniziato i "passaggi" sull'F-86E di recente dotazione.

Per un paio di settimane, si continuò con i "salti di pulce", a velocità via via più elevate. "Si" continuò: perché "lui" ed "io" eravamo entrati in confidenza e tutti e due (che strano: un aeroplano coi sentimenti?) aspettavamo con ansia il giorno del primo volo. Avevamo provato tutto: il motore, i freni, il paracadute di coda, l'efficacia degli alettoni e dell'elevatore, più e più volte.

La sera del 17 maggio eravamo pronti. L'ing. Meneghini, l'ing. Stefanutti ed io avevamo pregato di non divulgare la notizia che il mattino successivo sarebbe stato effettuato il primo volo. Infatti '" alle 9 del 18 maggio l'aeroporto era pieno di autorità dell'IRI e dell'AM a cominciare dal capo di stato maggiore gen. Raffaelli, ispiratore del progetto del "caccia leggero".


Facemmo buon viso a cattivo gioco. 

Feci con calma il controllo esterno, salii a bordo, spuntai con pignoleria tutta la mia check-list, misi in moto ed iniziai a rullare verso la testata della pista 13. 

Allineamento, freni, messaggio alla torre e tutto motore dentro. Parametri regolari, pressioni e temperature a posto. Stavo per mollare i freni, quando improvvisamente la lampadina rossa della bassa pressione carburante si accese: il manometro, però segnava pressione giusta. Avevo fatto installare a bordo due sistemi di controllo per ogni impianto, con sensori separati. Ridussi al minimo il motore, poi diedi ancora piena potenza. Niente da fare: la lampadina rossa restava pervicacemente accesa. Malinconicamente, tornai rullando all'hangar e fermai il motore. 

Quando spiegai di che si trattava, alcuni del seguito del generale Raffaelli tentarono di convincermi: in fondo era chiaro che si trattava soltanto del malfunzionamento del sensore. Il manometro confermava che la pressione carburante era regolare. Potevo, secondo loro, andare benissimo in volo. 

Fui irremovibile: si trattava di un prototipo costato miliardi e impegno. I due sensori per ogni impianto erano irrinunciabili. Il gen. Raffaelli salì sull'ala e venne a stringermi la mano: lui, da grande pilota qual'era, aveva capito. 

Così tutti andarono via e noi rimanemmo lì a lavorare. La sera l'aereo era pronto: il sensore era stato sostituito e tutto funzionava a dovere. 


Il Sagittario 2 operativo a Pratica di Mare (foto Franchini) 



Lo stesso velivolo al museo AM di Vigna di Valle 

Il mattino dopo, il 19 maggio 1956, stava appena spuntando il sole. Sul piazzale dell'hangar eravamo solo i quattro gatti già menzionati. In aeroporto tutti, tranne il personale dei vari servizi, dormivano. 

Il motore partì benissimo al primo colpo. Iniziai a rullare verso la pista osservando i saluti festosi degli uomini che avevano realizzato il velivolo. Allineamento sulla testata 13. «Pratica Torre, Sagittario, pronto al decollo». «Sagittario da Torre Pratica, autorizzato al decollo, vento calmo. Comandante, auguri!». 

L'accelerazione fu immediata, a 120 nodi su il ruotino anteriore, a 140 il franco distacco da terra. Ecco, finalmente, "lui" ed "io" eravamo nel nostro elemento. 

Secondo il programma, salita diritta fino a 1.000 piedi, poi la prima virata a destra della "sua" vita. Comandi dolcìssi'mi, equilibrio ottimo. Nel tratto "sottovento", salita a 2.000 piedi, virata a sinistra, poi ancora a destra, prove di risposta longitudinale a vari regimi del motore, quindi "virata base". 

Ecco, ora siamo allineati per il "finale". Giù i flaps, aperti gli aerofreni. L'aereo è equilibrato, risponde bene. Motore ridotto, velocità di avvicinamento (largamente prudenziale) 175 nodi. Poi, in "corto", motore, velocità in decremento, siamo sulla testata, un piccolo tocco alla cloche a tirare. Il contatto è dolce, l'aereo è veloce: mano alla maniglia del paracadute di coda. Si apre subito: la frenata è efficace. La Torre esplode in un «evviva!"». Finalmente anche l'Italia ha un caccia moderno all'altezza dei tempi. Sono autorizzato ad effettuare il backtrack sulla pista ed uscire dal raccordo diretto all'hangar dal quale sono entrato. Capisco subito il perché: tutto il 40 Stormo s'è svegliato e sono tutti, urlanti di gioia, lungo il raccordo. Corrono dietro al velivolo che rulla: una folla di amici, piloti, specialisti, avieri. Mi tirano giù di forza dal cockpit, e il medico di Stormo, il dr. Valletta, mi prende sulle spalle e poi tutti gridando verso il Circolo. 

Un attimo la strana carovana si ferma e vedo Stefanutti che mi guarda con gli occhi lucidi di pianto e con evidente commozione. 

Al Circolo ci abbracciamo: e così inizia (è ancora mattino abbastanza presto) il19 maggio 1956, quarant'anni fa, giorno indimenticabile della mia vita.

mercoledì 1 novembre 2017

Contro il Mare in Tempesta di Tonino Cervi da Aeronautica Gennaio 1994

CONTRO IL MARE IN TEMPESTA
di Tonino Cervi da Aeronautica Gennaio 1994




Sul primo pomeriggio del 31 marzo 1942, nel corso di una ricognizione nel Mediterraneo, un idro "506" della 1460 Squadriglia, di stanza ad Elmas, era stato costretto ad ammarare per avaria in mare aperto, a circa 100 miglia ad ovest della Sardegna.

Giunta la relativa comunicazione al comando della base, scatta immediatamente un'operazione di soccorso, che viene affidata a tre idrovolanti: un "S-66", pilotato dal Ten. Arzenton e due "Cant Z", uno dei quali affidato alla mia guida, con assegnazione per ciascuno di una prestabilita area di ricerca nel tratto di mare senalato. Contemporaneamente prende il mare una torpediniera, la quale però avrebbe potuto arrivare sul posto solo il mattino successivo.


Giunti in zona, un componente del mio equipaggio scorge in lontananza, sulla sinistra, il "506" in piena balia delle onde.

Reso noto il ritrovamento sia alla base di Elmas che alla torpediniera e agli altri due aerosoccoritori, mi dirigo con questi ultimi sull'idro in avaria e, mentre Arzenton, uno dei nostri più esperti ed abili idrovolantisti, si dispone all'ammaraggio e io resto in zona, l'altro velivolo, ritenuta ormai superflua la sua presenza, ci saluta con un battito d'ali e si porta sulla rotta di rientro.

Siamo attorno alle 17,30. Vento teso sui 40/50 km/h, visibilità ottima. Il mare, visto dalla nostra quota, appare appena mosso da onde uniformi e lunghe, segnate da strisciate di schiuma, veramente poche per un vento così forte, caratteristica, questa, di maltempo di recente formazione.

In realtà, il mare era ben diverso da quanto sembrava: e lo si capisce subito dal fatto che Arzenton, nel prendere il mare di prua per ammarare contro vento, va a "piastrellare" ripetutamente, prima di fermarsi nelle vicinanze dell'apparecchio da soccorrere, per una violenta aggressione di grosse e massiccie ondate.

In circa mezz' ora si compie il passaggio dei naufraghi dal "506" all' "S-66" che viene, di conseguenza, a trovarsi stracarico e con tredici persone a bordo in un mare che va continuamente peggiorando.

In simili condizini e con luce ormai crepuscolare tre sono le possibilità che si offrono ad Arzenton per il decollo: prendere l'onda per il lungo con vento di fianco, ma l'ala bassa dell"'S-66" costituisce una grave difficoltà; prendere le onde di petto con vento frontale che avrebbe potuto abbreviare il decollo, ma era come voler forare montagne d'acqua; aspettare l'aleatorio arrivo della torpediniera, la quale, però, nella migliore delle ipotesi avrebbe potuto giungere solo dopo otto-dieci ore, ma un tempo d'attesa troppo lungo poiché il continuo peggioramento delle condizioni del mare si dimostrava veramente esiziale per quell'idro dall'ala tanto bassa da fare corpo unico con i galleggianti e l'abitacolo. Ed è proprio per tali ragioni che vedo Arzenton optare, fidando nella sua grande esperienza, per la prima ipotesi e andare al decollo contro onda e con vento frontale.


Dall'alto non ci si rende conto esattamente di quanto ormai sia agitato il mare, ma, quando Arzenton dà manetta, scorgo i due tozzi scafi che affrontano una prima ondata che quasi li copre, per poi scendere nel cavo delle successive, sollevando ad ogni scontro vaste schiumate bianche.

Pare ad un certo punto che la manovra possa riuscire; ma ecco che, ad un tratto, l'''S-66'' schizza in alto pesante e scomposto e, ricadendo sull'ala sinistra, va in cento pezzi. Il castello motori s'inabissa subito in tanti rottami, che la bufera tende a disperdere, e cui sono disperatamente aggrappati tredici uomini riusciti a saltare fuori dal velivolo o da questo sbalzati in mare al momento dell'impatto con quelle gigantesche e rabbiose onde; ed è la più dolorosa immagine della nostra fragile umanità dinanzi all potenza della natura.

Nel compiere ancora, con dolore e con rabbia, qualche giro intorno per capire meglio la situazione, mi consulto con l'equipaggio ed insieme, tesi ma calmi, consideriamo che la nave, anche se è in viaggio, al suo arrivo non avrebbe trovato più nessuno a galla o ben difficilmente. Intanto, la luce sta calando rapidamente per cui se non ammariamo subito non ci sarà più nulla da fare. Il motorista Boscarino mi assicura che può scaricare rapidamente trenta quintali di benzina per alleggerirci tanto da poter effettuare, poi, il decollo che per il nostro aereo sarà più facile, avendo l'ala alta quattro metri sull'acqua e più potenza.

Fatte tali considerazioni, e d'accordo anche con il secondo pilota, plano con il vento sulla destra, prendendo di mira un'onda molto lunga e quasi dritta, sul fianco della quale dovrei scivolare per qualche centinaio di metri, un po' inclinato contro vento, ben attento a toccare con entrambi gli scafi, contemporaneamente; infatti, se, per un colpo di vento per un'onda "matta", uno degli scafi s'infilasse, sarebbe la fine.

A qualche metro dall'acqua, l'onda prescelta mi appare sempre più grande e più ribollente, il suo avvallamento più profondo; ed anche il vento, che ne sfrangia la cresta in larghe schiumate, sembra ancora più forte.

Un attimo d'indecisione da panico e do manetta per un altro giro. Non so cos'abbia notato, ma, se all'ultimo momento ho avuto quell'attimo di paura, significa che qualcosa non andava; forse la constatazione istintiva che stavo toccando acqua ad una velocità superiore alla solita, pur essendo vicino ala minima anemometrica. Di vento, infatti, ce n'era fin troppo, ma solo laterale.

Compiuto il giro, scelgo un'onda che sembra non peggiore della prima, lunga e ben fatta che dovrebbe permettere di fermarci nel pressi dei naufraghi; avvicinandomi all'acqua la sfioriamo con entrambi gli scafi, veloci, ma nella giusta posizione per mantenerla così, un po' inclinati a contrastare il vento, fino al termine della lunga, laboriosa scivolata.

Sembra che tutto vada per il meglio; senonché alla fine dell'interminabile ammaraggio, l'aereo s'infossa, ormai ingovernabile, in un avvallamento che l'ondata successiva copre totalmente venendoci addosso con una durezza che non sembra propria di un elemento a noi tanto familiare. In quel momento sentiamo anche un colpo come di uno sparo in fusoliera; ha ceduto un tirante d'acciaio dei galleggianti che, investiti da tre quarti, non ha resistito allo sforzo, certamente non previsto in fase di progetto. Peccato, perché eravamo quasi fermi.

Per il resto tutto bene.

I nostri amici naufraghi certamente non hanno mai dubitato del nostro intervento. Infatti, siamo lì con loro ed incominciamo a raccoglierli; qualcuno era sul battellino ancora gonfio per il precedente trasbordo, altri, con o senza salvangente, attaccati ai pezzi di legno più grossi dell"'S-66". Con immenso piacere constato che non manca nessuno e che, pur frastornati, contusi e fradici, non c'è alcun ferito grave.

Espressa la mia intenzione di decollare non appena Boscarino avrà mollato i 3000 litri di carburante in più, mi trovo dinanzi ad un preoccupante contrattempo: Boscarino mi dice che, purtroppo, la valvola di scarico rapido si è bloccata.

Ormai è guasi buio e con quel sovraccarico, mare in tempesta e l'impossibilità di scegliere l'onda giusta, tutte condizioni che mi obbligherebbero ad lungo, difficilissimo decollo, mi rendo conto che, per il momento, la scelta più ragionevole è quella di attendere il placarsi della tempesta o l'arrivo della torpediniera, cercando nel frattempo di tenere l'idro in modo da non fargli subire danni.

Ed è ciò che faccio.  Lente, cariche di una crescente ansia e dense di pensieri facilmente immaginabili, scorrono le ore, mentre, inoltre, tutti gli uomini recuperati, chiusi dentro la fusoliera, bagnati fradici come sono, infreddoliti,
sottoposti ad un tremendo ballo. cominciano a stare male e, da via, sempre di più.

Con l'intenzione di tenere sù il morale di ciascuno, e anche il mio. non trovo di meglio che insistere sulla solidità del velivolo e come. se si riesca a tenerI o con la prua a.: mare, esso venga a tra formarsi un inaffondabile catamarano, dari gli scafi stagni di tredici metri dei quali è dotato e con un interstizio di sette. Dal canto suo, il secondo pilota, che anche in questa occasione non ha perduto il proprio abituale buonumore, fa altrettanto con uscite di vario genere.

Scende la notte e con l'oscurità che ci viene ad inghiottire cresce in ognuno di noi la tensione, l'apprensione. Si calmerà alla fine il mare, arriverà la torpediniera? E quando? Quando?

Verso le due di notte, ora in cui penso che la torpediniera non dovrebbe essere lontana, prendo a lanciare, ad intervalli di venti minuti. razzi di segnalazione, sperando che nei paraggi non si aggiri qualche ricognitore inglese.

Dopo il settimo lancio scorgiamo, finalmente, nel buio, rotto solo a tratti dalle pallide fosforescenze prodotte dalle schiumate delle onde, una luce di risposta. La torpediniera che tanto coraggiosamente ha affrontato quel mare così ostile, ci ha "veduto".
 
 

La speranza, ridotta appena ad un tenue filo, riaffiora di colpo nell'animo di ognuno.

Giuntaci la nave vicino, messasi con un'abile manovra sopravvento e accesi dei fari, effettuiamo, con l'aiuto dei bravissimi marinai, il trasbordo, dei naufragi dando ovviamente la precedenza ai più malconci, paurosamente sballottati da quelle terribili, impietose onde, passando dal velivolo sul battellino, da questo su una scialuppa calata dalla torpediniera, e da questa sulla nave. Quindi, tolto dal 506 ~ quanto non dovevamo lasciare. messo l'aeroplano con la prua al mare e ben legato all'ancora galleggiante, anche il mio equipaggio ed io saliamo sulla torpediniera.

Abbiamo salutato il nostro "Cant n un sincero affettuoso "arrivederci". Ma che struggente pena nel vederlo. a mano, a mano che la torpediniera si allontanava, farsi sempre più piccolo. È stato come distaccarsi da un fedele amico.

Sì, proprio così, perché per ogni aviatore il suo aeroplano è un amico.

Per tutta la mattinata incrociamo con la torpediniera in prossimità del nostro aereo. Osservo quanto sia brava questa gente di mare e quanto è ammaccata questa vecchia nave che. sono la spinta da vento s'inclina di oltre 30 gradi facendo la spola da Nord a Sud e viceversa.

In un primo tempo non capisco lo scopo di quell'andirivieni, fin che il Comandante non esprime la sua intenzione di agganciare l'areo con un cavo d'acciaio, come fosse un natante qualsiasi, per rimorchiarlo fino al porro di Cagliari. Dopo qualche ora. però, di solitarie riflessioni, egli ordina il rientro perché deve essersi reso conto che i danni che noi avevamo evitato all'idrovolante con decisioni istantanee, consuete per chi vola, li avrebbe creati la nave al primo strappo, dato che ogni aereo, anche se pesante cento quintali, è un complesso di metalli leggeri e, quindi, da trattarsi di conseguenza.

Rientrati così, sani e salvi ad Elmas, viviamo tutta la gioia dello scampato pericolo, ma con un pensiero inchiodato

nella mente: che fine avrà fatto il nostro generoso "Cant Z 506", in mezzo a quel mare infuriato?

Passata questa tempesta, la più brutta di quelle che affrontato assieme al mio magnifico equipaggio, esso viene dopo tre giorni avvistato - e di colpo un altro moto di gioia ci afferra - ad oltre 200 miglia ad EstSud Est del canale di Sicilia. È intatto, tutto bianco brillante di sale, quasi fiero di sé per avere vinto un'altra sua battaglia, e forse la più entusiasmante in quanto combattuta contro quella tremenda, impietosa forza che scatena l'infuriare di una tempesta in mare.

Ritrovato parimenti, poco più lontano, l'altro "506", quello che aveva ammarato per avaria.

Ed è, così, che anche i due velivoli, che erano andati alla deriva avendo perduto l'ancora galleggiante per il cedimento del canapo ai violenti strappi causati dalla furia di quei tre giorni di bufera, se ne tornarono a casa, rimorchiati con la dovuta cura e festosamenti salutati.

Poi, un'incredibile sorpresa. Messo il mio aeroplano sul suo carrello e provati i motori, questi partirono immediatamente.

Una profonda commozione afferrò in quel momento il mio cuore. Mi sembrò, o ne fui certo?, che il loro rombo fosse un'I'umana" espressione di gioia per essere tornato tra di noi, tra i suoi amici, e dirci:

"Vedete come sono stato bravo e come sono ancora "in gamba"?

La stessa commozione che sento ancora oggi, ad oltre cinquanta anni di distanza, nel ricordare questo episodio.

E nel rivedere, uno ad uno, i volti degli uomini del mio magnifico equipaggio e di tutti i naufraghi di quel volo, il mio pensiero va anche a te, caro, indimenticabile, generoso compagno di tante avventure tra mare e cielo.

Tonino Cervi